lunedì 15 febbraio 2010

E' tutta colpa di Michael Jackson

Perché sono partito per Tangeri Solo per evadere per un po' di tempo. Questi i miei appunti su come ero ridotto rimanendo chiuso in casa:
"Da parecchi, troppi giorni mi trovo rinchiuso nel mio studio in forma eremitica. Trascuro cibo e bevanda, le regolari ore di sonno sono un ricordo. Dovreste vedere le condizioni in cui vivo: la polvere si deposita sui mobili di casa in una patina che conferisce al decoro complessivo un’aria di triste decadenza da morte a Venezia, la spazzatura si accumula in cucina, mi guardo allo specchio, sporco anche quello, e vedo un viso tirato dalla stanchezza, una barba ispida, occhi rossi e affaticati. Mi domando se i vicini di casa, non vedendomi più, si proccupano di sapere dove se sono vivo o morto. Vorrei gridare loro sono vivo, sono più che mai vivo. Lo farò più tardi Ora medito su ciò che mi è accaduto. Ma che cosa mi è accaduto. Ebbene, ve lo devo confessare. La colpa è di Michael Jackson! Ma se è morto da un pezzo, direte voi. Non importa il tempo trascorso dal suo trapasso, se mi trovo in queste condizioni è solo perché MJ, dio come odio ridurlo a una sigla, non è con noi. Chi ha mai detto che la morte è solo una disgrazia. In verità essa è anche un evento imbarazzante, o addirittura un atto di maleducazione. Come ha potuto lasciarci così, piantando in asso tutto e tutti. Ora penserete che io sia un appassionato di lunga data di MJ, ma non è così. Che ci crediate o meno, il personaggio mi è sempre stato pressoché sconosciuto, e il poco che di lui sapevo non mi piaceva. Ho sempre avuto repulsione per quell’efebo color latte macchiato e vestito come il piccolo principe di Saint-Exupéry, che alla luce di equivoci riflettori danzava avvitandosi su se stesso, più veloce di un derviscio turco e di un vortice d’acqua che scola in un tombino. E poi quel mancato riscatto della sua ‘négritude’, concetto caro a Aimé Césaire e a Léopold Senghor. Quella sua pelle che sbiadiva come il ricordo delle sue origini, gli spiriti della sua madre Africa adirati che gli avevano donato maghifiche ali nere di vellutata farfalla tropicale, e lui voleva disfarsene per regredire alla condizione di pallido, lattiginoso bruco. Per lui Malcom X non era forse mai esistito. No, quella cattiva riproduzione di derviscio rotante non mi attirava. Posso senza incertezze affermare che è dall’inizio degli anni 80 che mi rifiuto di fare conoscenza con MJ. Ora però! Ricordo come la notizia del suo trapasso provocò uno sconquasso planetario. Sembrava che il globo terrestre avesse rallentato con un sinistro cigolio la sua rivoluzione intorno al sole. Stupito da tutto quel clamore e quella commozione mediatica nord-nord da Seattle a Stoccolma e sud-sud da Taipei ad Abidjan, ho preso ad interessarmi al personaggio, a vedere i suoi videoclip dapprima con diffidenza, successivamente senza più remore e ritegno, tutte le antenne acustiche dispiegate, per poi alla fine trovarmi inchiodato davanti al video, affascinato dalle movenze di danza di quel corifeo ultraterreno. Ahimé, delizia e tormento, ora sono recluso nel mio studio, questo incubo di una notte di mezza estate, in una forma di rapporto bipolare esclusivo tra lui e me, con youtube a fare da intermediario La situazione ha dell’irreale Lo studio è immerso nel silenzio, ma questa calma è ingannevole. Attraverso la complicità di cuffie stereofoniche, un universo sonoro di chitarre acustiche e di percussioni si riversa dal web, passa nel mio canale auricolare, e da lì direttamente alla mia anima. La quale anima è ora perduta, venduta al Mefisto bianconero in un patto di eterna alleanza. I bastioni della mia cittadella hanno cominciato a cedere sotto i colpi di ariete ritmati su ‘Black or White’e di ‘Man in the Mirror’, per poi defititivamente crollare come le mura di Gerico sotto le percosse delle sei semicrome e delle tre crome di quell’unica, irripetibile misura ritmica di ‘Thriller’. Il mondo dei morti viventi mi possa inghiottire se mai dimenticherò quel ritmo primordiale. Il sound americano mi si era rivelato già agli inizi degli anni 70 con le canzoni dei ‘Sunday Funnies’, e alla metà del decennio successivo con il brano intimistico, languoroso e sincopato del ‘Sexual Healing’ di Marvin Gaye. Non avevo approfondito l’argomento musicale del momento e non me ne curavo troppo. Perfino la moria di artisti come Jimi Hendrix, Jim Morrison e Bob Marley mi aveva lasciato indifferente. Sempre in quegli anni mi aveva invece affascinato, anche se con notevole ritardo, un certo stile musicale californiano ‘on the road’, che per strani automatismi della psiche visualizzavo in interminabili highways assolate e con scarso traffico, come quella che da San Diego porta a sconfinare a Tijuana, dove bikers neri come corvi avviavano le loro Harleys scalciando a grandi colpi di pedivella, quando insieme al ruggito dei motori bicilindrici mi si avviava dentro anche il sound dei Bee Gees (i quali però americani non erano, ma ‘soltanto’ inglesi). Per il resto, la faccia del mio pianeta musicale, più che al sole, era rivolta alla luna, e a Saturno Era la musica barocca e classica che mi teneva prigioniero. Tra le pareti di casa, quando la lunare, saturnina liturgia di concerti grossi, stabat mater e quartetti d’archi veniva eccezionalmente interrotta dal suono di strumenti elettrici, Franz Joseph Haydn mi guardava severo dal suo ritratto a parete, facendomi sentire come un seminarista sorpreso a gironzolare di notte in un quartiere a luci rosse. Ma torniamo ad oggi, a tutte interminabili ore che sono seguite a quel 26 giugno da cani. In quell'intervallo di tempo, è come se tutto il groppo di musicalità pop da me non vissuta mi si fosse sciolta in blocco. Mi auguro solo che la fine di Michael Jackson non ci induca a sollevare questioni oziose come 'ora non avremo più la sua musica', dato che alla bisogna si tratterebbe di un problema di music-fiction tecnicamente superabile. I computer dei tecnici del suono di Neverland hanno sicuramente immagazzinato una tale quantità di dati sonori da essere in grado di comporre da soli canzoni ‘originali’ di Michael Jackson per molti anni a venire. Si preme una determinata combinazione di tasti ed ecco che esce un clone di ‘Dirty Diana’. Premendone un’altra, oplà ecco che vede la luce una creatura figlia dello sperma surgelato di ‘Human nature’. Quanto ai contenuti puramente musicali delle canzoni di MJ, spiacerà forse dover riconoscere che quelli dei brani di Eric Clapton, tanto per fare un esempio, sono più ricchi e intensi. Si dovrà allora concludere che il prestigio personale di MJ ha motivazioni diverse? MJ sapeva abbindolare folle da stadio olimpico di Pechino e oltre. Ai suoi concerti decine di giovani cadevano in deliquio e venivano portati su barelle in centri di rianimazione, e queste cose succedono a Lourdes o alla Mecca. Il pubblico mangiava dalla sua mano, e la sua mano moltiplicava i pani e i pesci, mentre la rabbia dei suoi piedi lo faceva camminare sulle acque. Il fascino di MJ era dunque di natura religiosa. Il suo ‘moon-walking’ era di natura shamanica, le sue rotazioni sui palcoscenici di mezzo mondo erano davvero dervisciche, a imitazione delle rivoluzioni dei corpi celesti. Faccio poi notare che il linguaggio del suo corpo, oltre che al sufismo, si rifaceva al cattolicesimo avventistico di vecchio stampo: a esibizione ultimata, nel fragore osannante, nei pianti e nello stridore di denti delle moltitudini in delirio, MJ si immobilizzava sul palco, il capo rovesciato all'indietro, le braccia aperte e distese a formare una croce, come prima di lui solo Pio XII sapeva fare. Se così stanno le cose, chiudiamo il caso, mettiamoci su una pietra (tombale), e lasciate che io continui lo studio critico della vita di Michael, la pia esegesi della sua morte e miracoli che seguiranno. Permettetemi anche di concludere questi miei appunti. Da un momento all'altro dovrebbe suonare il campanello di casa. L'incaricato della mia biblioteca comunale deve recapitarmi un’altro container di volumi utili al mio studio forsennato della persona di Michael Jackson. Già altri carichi di libri ingombrano tutte le altre stanze della casa che abito. Ci sono volumi ovunque, e questi riempiono armadi, dispense e ripostigli. Quest’ultima fornitura di tomi, 9000 chili in tutto, sono studi che vertono su di un unico argomento: la ‘vitiligo’.

Nessun commento:

Posta un commento